L'ultimo raccolto - un racconto
- Simona
- 7 set
- Tempo di lettura: 5 min
Sono Simona, le mani, la mente e il cuore dietro al progetto Hic Sunt Monstra, e questo è il mio blog, dove vi parlo prevalentemente di artigianato e ispirazione. Scrivere è una mia grande passione, spero di riuscire a coinvolgervi nel mio lavoro e nel mio mondo anche tramite i miei post.

Da anni sono innamorata della Luna, non solo della sua presenza fisica ma anche dei suoi riferimenti simbolici, della mitologia e di tutte le leggende di cui è protagonista.
E così, mentre quest'anno riporto tutta la magia delle Lune piene del folklore nel mio immaginario creativo, ho deciso di accompagnare ciascuna Luna piena con un racconto.
La Luna Piena del Raccolto, nota anche come Luna del Vino o Luna del Cambiamento, è la Luna che accompagna la transizione tra la vitalità estiva e i primi silenzi dell’autunno. È il tempo degli ultimi frutti, dell’uva succosa, delle messi tardive che racchiudono la dolcezza più intensa.
Questa Luna celebra l’abbondanza e allo stesso tempo ci invita a volgere lo sguardo dentro: un cammino che dal fuori si muove verso il basso, verso una dimensione più intima e ombrosa. È un processo di equilibrio tra luce e ombra, tra festa e introspezione, che richiede consapevolezza e la capacità di lasciare andare ciò che non serve più.
Come nei campi dopo il raccolto, è il momento di fare pulizia, dentro e fuori di noi. Di mantenere la stabilità, sì, ma senza dimenticare la leggerezza: occorre celebrare in libertà i nostri traguardi, onorare ciò che abbiamo saputo conquistare, e gioire delle forze che ci hanno sostenute.
C’è una componente vitale e godereccia in questa Luna: non a caso è legata al vino, alle vigne, all’ebbrezza di Dioniso. L’estasi diventa uno strumento di liberazione, ci aiuta a lasciar andare le rigidità e a riscoprire la creatività fluida che scorre dentro di noi.
L’autunno porta con sé una magia insolita: non muore la vita, ma si trasforma, prendendo nuove direzioni. È il momento giusto per affondare le dita nella terra scura, per dare spazio all’anima che ha bisogno di quiete e di sogni. È un ciclo che ricomincia, e che ancora oggi sa sorprenderci, come sorprendeva gli Antichi, che guardavano alla Natura per ritrovare i propri ritmi interiori.
© Simona Bonanni - settembre 2025
Ad Aralia piacevano sempre gli ultimi frutti.
Diceva che, se la felicità esisteva davvero, allora le divinità l’avevano nascosta nell’uva più matura, tra le ultime mele, nei fichi violacei asciugati dal sole.
«Perché dici questo?» le chiedevano tutti.
«Perché gli ultimi frutti sono i più faticosi da raccogliere, ma quando li addenti, sono i più dolci.»
Mancavano ancora molti giorni all’equinozio, eppure l’autunno sembrava già bussare alle finestre, che la mattina presto si appannavano di nebbia. La sera, quando rientravi dai campi o dalle faccende quotidiane, era impossibile non avvolgersi più stretta nello scialle, per proteggersi da quella brezzolina notturna che pizzicava la gola.
Le ragazze del paese già piangevano all’idea che l’estate fosse alla fine. Ma Aralia amava quella parte dell’anno, quando tutto si faceva più quieto, intimo, silenzioso, e l’aria profumava di cose magiche e lontane. Le sembrava che ogni fatica pesasse di meno e valesse di più.
Quella sera si attardò nell’orto. Non aveva particolari incombenze, se non rassettare le piante e godersi il tramonto. Tutto sembrava immerso in un pulviscolo d’oro. Ancora pochi giorni, pensò, e avremo messo l’ultimo fieno in cascina, sistemato i raccolti a essiccare e stipato le cantine, dove il cibo durerà per tutto l’inverno. Ma non erano quei pensieri a trattenerla con i piedi nudi nell’erba. Era piuttosto la certezza che la Luna, quella notte, sarebbe stata piena: e lei voleva vederla.
La Luna del Raccolto, così la chiamavano, ed era la sua preferita. Sembrava celebrare l’abbondanza che la terra aveva regalato ancora una volta. Sembrava dirle: Tutto è meraviglioso! e poi: Adesso riposa, adesso festeggia, adesso sii felice.
Aralia si chinò tra i filari ormai radi, immergendo le dita tra le erbe aromatiche. Il profumo del rosmarino si mescolò a quello della salvia. Le ultime foglie di cavolo resistevano tenaci, mentre le zucche si facevano ogni giorno più grosse. Ogni pianta portava la memoria dello sforzo, del sudore, delle mani sporche di terra, dell’amore che giorno dopo giorno l’aveva nutrita. Ogni raccolto era un promemoria: senza fatica non ci sarebbe stato né pane né vino, né la dolcezza di quei frutti che ora si facevano pesanti e zuccherini.
Si fermò a respirare a fondo. Nell’aria c’era l’odore delle foglie secche già accumulate negli angoli, il sentore umido della sera in arrivo, e in lontananza il frinire ostinato dei grilli che non volevano arrendersi all’autunno. Il cielo si tingeva di rame e viola, e una cornacchia solitaria attraversò l’aria con un verso rauco. Quell’odore e quei suoni le ricordavano sua madre, che in autunno preparava conserve e decotti, dicendo che ogni stagione porta con sé un dono da godere pienamente. Ma per Aralia non c’era dono più grande dell’arrivo dell’autunno.
Un fruscio alle spalle la fece voltare: tra le ombre che si allungavano le parve di scorgere un movimento lieve, un bagliore quasi impercettibile. Una figura minuta (forse solo un gioco di luce?) le sorrise dall’orlo del cespuglio. Gli occhi di Aralia cercarono di aggrapparsi alla razionalità: poteva essere un riflesso, un animale, persino il vento tra le foglie. Eppure, dentro di sé, desiderava con tutte le forze che fosse altro: una fata, un folletto, uno spirito benevolo. Non le importava davvero saperlo. Le bastò cogliere quella sensazione fugace, come di una benedizione offerta solo a lei, che sapeva attendere con fiducia, in silenzio.
Attendere, sì. Un nuovo giorno come il grande amore. Mentre ci pensava, il cuore prese a batterle più forte. Un sentimento nuovo l'accompagnava da giorni: la sensazione di non essere più sola in quelle attese e in quei silenzi. Qualcuno, là fuori, amava le stesse atmosfere, le stesse lune, gli stessi frutti maturi. Qualcuno che forse stava pensando a lei proprio in quell’istante. E non era un caso se, da qualche tempo, trovava fiori lasciati sul muretto dell’orto o impronte leggere sulla terra smossa, come se mani invisibili avessero lavorato accanto alle sue.
Quando si ridestò dai suoi pensieri, la Luna era già alta. La guardava benevola, sorridente. Nel freschetto della sera, Aralia sentì il calore della sua magia. Era tempo di rientrare.
Ancora una volta Aradia trovò un regalo sulla porta di casa: un piccolo cestino di fichi violacei - già spaccati e con la polpa invitante - e una pera matura, dal profumo intenso. Si chinò, accarezzò i frutti come fossero vivi. Sulle sue labbra sbocciò un sorriso che non riuscì a contenere. Non serviva sapere chi le avesse portato quel piccolo tesoro: le bastava intuirlo.
Entrò stringendo il cestino al petto. La luce dorata della Luna del Raccolto filtrava dalla finestra, riempiendo le stanze di un silenzio buono. In quel momento, Aralia ebbe nuovamente conferma che la felicità esisteva davvero: era nascosta lì, dentro quei fichi, nei suoi amati ultimi frutti e nel mistero della vita che non smetteva di stupirla.
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